Sorta lungo l’antica via Annia, la Chiesa di Santa Sofia è uno degli edifici sacri più suggestivi della città. La tradizione la vuole fondata da San Prosdocimo, ma la prima fondazione, a cui si lega il nome del borgo circostante, risalirebbe all’epoca longobardo-carolingia, quando sarebbe stata costruita sul luogo di un preesistente tempio pagano, probabilmente dedicato al dio Mitra, divinità di origine persiana. Alcuni studiosi ritengono invece che la Chiesa risalga alla fine dell’anno Mille, quando maestranze veneziane costruirono la cripta, rimasta peraltro incompiuta.
Il primo documento in cui è citata la chiesa di Santa Sofia è datato 19 febbraio 1123: il vescovo di Padova Sinibaldo intervenne per sollecitare i lavori di completamento della chiesa, lavori edificatori che perduravano da decenni, almeno dal 1109, in un cantiere colpito da importanti calamità come il terremoto del 1117. La costruzione è caratterizzata dall’attento uso della pietra e del cotto, che compone in larga parte la fabbrica. La facciata, leggermente inclinata per i cedimenti del terreno, poggia su un basamento in trachite ed è divisa in tre part: in basso si apre il portale incorniciato da un arco a tripla ghiera, fiancheggiato da nicchie entro le quali un tempo vi erano degli affreschi in cui oggi restano vaghe tracce; in alto la zona è ripartita da due semicolonne in laterizio. Le ali laterali della facciata sono tripartite da archeggiature a doppia risega.
L’interno è a tre navate diverse, anche gli elementi di sostegno alla navata centrale, colonne e pilastri, sono irregolari per forma e dimensioni. Lungo le navate si aprono aperture di varie epoche: monofore e bifore della costruzione romanica, oculi gotici e finestroni quadrangolari cinquecenteschi. I finestroni alla palladiana aperti nel seicento furono tamponati già nell’Ottocento. La copertura è a volte a crociera.
La parte più antica della Chiesa è l’abside che ha la forma di un ampio emiciclo, formato dalla sovrapposizione di tre ordini di arcate, costruiti in epoche differenti. Nella grande nicchia centrale (ricomposta nel 1852) troviamo la Madonna in trono con Bambino tra due Sante e due committenti.
L’affresco è stato riportato alla luce nel corso dei lavori di restauro della chiesa eseguiti immediatamente prima della seconda guerra mondiale, precedentemente era nascosto da una grossa muratura. La Madonna, rappresentata con la veste rosa carico e il mantello blu finemente drappeggiato, secondo i canoni iconografici classici, sorregge sulle sue ginocchia un paffuto Gesù vestito con un delicato drappo bianco trapunto da motivi floreali.
Le due Sante incoronate, simmetricamente disposte ai lati del trono, non sono identificate per mancanza di attributi specifici, sono rappresentate con vesti mosse e ricche, avvolte da ampi drappi dal colore sgargiante e trapuntato di stelle. Il ricco vestire, le corone e l’atteggiamento familiare potrebbero indicare una loro nobile origine. Ai piedi del trono, racchiusi nello spessore della spalla del sedile, sono raffigurati due committenti maschili, vestiti con una cuffia in testa e un semplice saio, come di uso all’epoca.
E’ pregevole la fattura del trono che poggia su due scalini: l’ampia voluta dallo schienale, i due fianchi impreziositi da elaborati pinnacoli, le superfici lavorate con riquadri policromatici, la cornice all’interno della lunetta rimandano direttamente alla Cappella degli Scrovegni e quindi alla maniera giottesca padovana dei primissimi decenni del Trecento e, forse, alla stessa scuola che affrescò la Madonna in trono con Bambino e Committente, sulla parete laterale destra della Chiesa degli Eremitani a Padova.
All’interno sono conservati dei piccoli affreschi la cui realizzazione è ascrivibile a varie fasi intercorse tra i secoli XIII e XIV.
La Madonna Eleusa è chiamata anche Madonna della Tenerezza, perché rappresenta la tenerezza e l’amore scambievoli della Madre e del Figlio. Vi si vede il Bambino Divino passare i braccio attorno al collo della Madre e premere il volto contro la sua guancia. Maria, dagli occhi malinconici, apparentemente incurante delle tenerezze del figlio, guarda lontano, meditando sul destino tragico di suo Figlio. Nello stesso tempo ella si china sul Divino Bambino cercando da lui pietà e protezione per coloro che vengono a invocare. Il Cristo così strettamente avvinghiato a sua Madre, sembra volerla consolare, conoscendo le sue pene segrete. E’ un affresco di alta qualità, l’iconografia è nata nell’ambito bizantino ma presto si è trasferita in occidente, il frescante è da comprendere nell’ambito della scuola di Francesco da Gaibana che miniò il celebre “Epistolario” per la Cattedrale di Padova sul finire del XIII secolo.
Sul primo pilastro di destra sul presbiterio vi è il resto di un affresco raffigurante la Madonna in Trono con in braccio il Bambino Gesù, si tratta di un frammento di una più vasta pittura che interessava l’intero pilastro con altre figure di contorno. Il soggetto è famigliare, le due figure sorridenti si scambiano un affettuoso abbraccio, il volto della Madonna, assisa su un trono ligneo di elegante fattura, incorniciato dal mantello blu, ha un atteggiamento affettuoso verso il Bambino che si stringono vivacemente al collo, colloquiando con la Madre in un eloquente incrociarsi di sguardi. L’opera, di pregevole fattura per la freschezza compositiva e i colori vivaci, può essere datata a metà del secolo XIV.
Il Crocifisso ligneo dell’altare maggiore, restaurato a settembre 2013, è databile ad inizio Cinquecento; non si conosce l’autore che si ritiene di scuola veneta. E’ un’opera di impressionismo composto, l’intaglio è morbido e compiuto, impreziosito da una policromia che riprende toni rosacei e dona all’incarnato una calda espressione. Il corpo è eretto, non sospeso ai chiodi, nell’intaglio del volto e del corpo è eliminata ogni tensione ed esasperazione. Il capo è violentemente rivolto verso il basso, i capelli non sono modellati nel legno ma semplicemente tracciati a pittura, la barba è lavorata in legno rilievo, forse a pastiglia. I tratti salienti del viso sono di grande semplicità: dalla fronte, cinta da una semplice corda intrecciata, in cui sono riflessi le spine e dei chiodi, scenda copioso il sangue che imbratta, a raggiera, il tronco. Gli occhi sono chiusi, la bocca è semiaperta dopo aver esalato l’ultimo respiro, il contrasto è profondamente inciso dalla ferita da cui sgorga copiosamente il sangue, cosi come dalle mani e dai piedi. Particolare è il perizoma, annodato alla vita, che è fatto di una tela a trama grossa, modellata nelle pieghe, di tinta bianca con bordatura azzurre: è stato aggiunto in un secondo momento sulla figura originariamente nuda. Il restauro ha evidenziato che il tronco e le gambe sono state scolpite su di un unico tronco, mentre la testa e le braccia sono ricavate da inserti di legno, sempre nel corso del restauro sono stati eliminati la parrucca e l’aureola, non originali e di grezza fattura.
E’ infine databile agli inizi del Quattrocento il Tabernacolo del Santissimo Sacramento con due santi francescani, avvicinabile ai modi della bottega di Jacopo e Pierpaolo delle Masegne e al 1430 la Vergine con il Cristo morto di Egidio da Wiener Neustadt commissionata dal ricco fornaio Bartolomeo di Gregorio che fece anche eseguire da Andrea Mantegna la perduta pala dell’altar maggiore.
Il Tabernacolo è murato nella prima arcata della campana sinistra, a fianco del battistero, è un’opera di fine lavorazione che ha sofferto le ingiurie dei secoli. Rappresenta due Santi Francescani, riconoscibili dai classici lunghi sai, stretti alla cintola dal semplice cordone e dalla corona di capelli sul capo. Sono racchiusi in due edicole pensili sorrette da colonne a torciglione dorate. Al centro la portella di legno scolpito a fiore, anch’essa dorata, racchiudeva una volta gli oli santi. Questa tipologia di tabernacolo, racchiuso da figure di Santi, era diffusa nel Veneto all’inizio del 1400 come dimostra quello conservato presso il Museo Civico di Padova, originariamente nella chiesa di Codevigo, che potrebbe essere stato scolpito dallo stesso scalpellino per le somiglianze di soggetti, forme e composizione.
La Pietà in pietra tenera dipinta dallo scultore Austriaco Egidio Da Wiener Neustadt è l’opera d’arte di maggior pregio presente in chiesa. In un documento del 1429 Bartolomeo “fornaio” residente nella contrada S. Biagio, membro della nota e potente (allora) Confraternita di S. Antonio, affidava al lapicidio Egidio l’incarico di scolpire in pietra tenera la Vergine addolorata con in figlio in braccio. Il compenso pattuito era di 20 ducati. Lo scultore si assicurava l’impegno di completare l’opera, finita anche nei colori, la domenica degli olivi. Sullo zoccolo, un po’ abrasato dal tempo è scolpita in caratteri gotici un’iscrizione latina, composta di tre esametri in cui si legge il nome del donatore Bartolomeo il quale, tra l’altro, commissionò al giovanissimo Andrea Mantegna, appena diciassettenne, una grande pala d’altare di argomento mariano largamente lodata dalla critica d’arte, ma poi andata perduta; la data era il 15 agosto 1430. L’opera si rifà alle sacre rappresentazioni in un ambiente nordico-alpino di primitivi intagliatori in legno, calati giù in Italia nel corso del XV° secolo, come lo prova la drammaticità della composizione, la durezza della posa del corpo del Cristo e il panneggio del manto della Vergine. Difatti nei paesi tedeschi, tra il XIV° e il XV° secolo, ebbe grande diffusione il Vesperbild, cioè la rappresentazione della Madonna con il Figlio morto riverso sulle ginocchia. Vesperbild significa “immagine della sera”, derivato dall’usanza dei fedeli di radunarsi alla sera per recitare le preghiere serali accanto a questa sacra immagine.
All’ingresso della chiesa, a sinistra, è collocata la monumentale tomba degli studenti germanici che raccoglie le spoglie dei giovani di quella nazione morti a Padova nel corso dei loro studi presso l’Università. Il numero degli studenti presenti al Bò nel corso del secolo XVI era di diverse migliaia; gli studenti tedeschi, anche luterani, che studiavano in città erano uniti in una “natio” che raccoglieva i giuristi, i filosofi, i medici e i teologi. Nel 1565 il preposito Bonifacio Bonfio concesse al collegio di aprire una tomba comune per i propri defunti. Questo sacello conferma sia l’influenza di quella associazione, sia l’importanza della chiesa di S. Sofia all’epoca. Il monumento funebre, tripartito, ha forme neoclassiche, la parte superiore in marmo nero e scritte in oro, riporta, nel riquadro centrale, la preghiera in ricordo degli studenti defunti, tra bassorilievi rappresentanti composizioni floreali delimitati da architravi in pietra bianca, aggettanti. L’elemento inferiore, a contrasto tutto in marmo chiaro, indica i nomi dei procuratori e dei consoli tedeschi dell’epoca.
La chiesa di Santa Sofia ospita il fonte battesimale che un tempo era nella chiesa di Santa Caterina. Su questo fonte battesimale, il 22 agosto del 1606, venne battezzato Livia e Gianvincenzo Galilei, figli di Galileo Galilei.
Entrando, sulla destra vi è un piccolo lapidario, dietro la porta d’ingresso, in controfacciata c’è il monumento funebre a Ludovico Cortusio, celebre letterato, morto nel 1418, che dispose che ai suoi funerali partecipasse un coro di dodici ragazze vestite di verde, accompagnate da cinquanta suonatori e da tutti gli ordini monastici, eccetto quelli in abito nero.
Nella chiesa, sino al 1957, si veneravano i corpi incorrotti della beata Beatrice I d’Este (dal 1578) e della beata Elena Enselmini.
- La Beata Beatrice d’Este, figlia di Azzo VI signore di Este, era una monaca benedettina. Dopo la sua prematura morte, avvenuta nel 1226, fu sepolta nel convento da lei fondato del Monte Gemola. Fu poi traslata qui a Santa Sofia a Padova, in una tomba che riporta incisa in versi la sua storia. Fu beatificata nel 1763. Oggi il suo corpo è esposto nella teca sotto l’altare del Duomo di Santa Tecla a Este, lì trasferita dal 1954.
Attualmente l’altare dedicato alla Beata Beatrice D’Este mostra una pala con san Francesco da Paola e suoi miracoli, proveniente dalla chiesa dei Paolotti.
- La Beata Elena Enselmini, nata a Padova nel 1207 e morta all’Arcella il 4 Novembre del 1231, è stata una monaca religiosa italiana, beatificata da papa Innocenzo XII nel 1695, venerata da San Gregorio Barbarigo che ne aveva promosso il culto. Il suo corpo incorrotto venne venerato prima nel Monastero di Santa Maria de Cella, poi nel 1513 venne portato nella chiesa della Beata Elena (Zona Portello) e nel 1810 la salma fu tumulata nella chiesa di Santa Sofia. Nel 1957 ritornò nuovamente al santuario dell’Arcella nella chiesa officiata dai Frati Minori Conventuali. Figlia di una nobile famiglia padovana, a 13 anni entrò tra le Clarisse del piccolo monastero di S. Maria de Cella, fondato da S. Francesco intorno al 1220, di ritorno dall’Oriente. Quando S. Antonio giunse a Padova come Ministro Provinciale, intorno al 1227, visitò e dimorò nel monastero dell’Arcella e qui conobbe anche Elena. Fu lui, sembra, a dare formazione teologica e preparazione morale alla giovane fanciulla. A 23 anni fu colpita da una grave malattia che sopportò con vera fortezza d’animo e serena fiducia nel signore. L’infermità che aveva colpito la povera Elena, la privò dell’uso della parola e della vista, impedendole inoltre di poter assumere qualsiasi cibo, sicché visse gli ultimi tre mesi senza mangiare né bere. Mori all’età di 24 anni, circa quattro mesi dopo la morte di San Antonio. Oggi la Santa viene invocata dai fedeli che le chiedono forza di fronte alle malattie e al dolore.
Al centro del primo altare, sulla sinistra, si trova un dipinto su tela raffigurante la Madonna del Rosario di Pompei con San Domenico e Santa Caterina da Siena.
La Madonna del Rosario è una delle tradizionali e più celebri e importanti raffigurazioni nelle quali la Chiesa venera Maria: la Vergine è rappresentata con una veste azzurra e una corona del Rosario tra le mani. Si tratta di una rappresentazione particolarmente frequente nella devozione dopo la Controriforma, la cui iconografia è ripresa da quella, più antica, della Madonna della Cintola. La Chiesa cattolica celebra la festa della Madonna del Rosario il 7 ottobre di ogni anno.
Questa festa fu istituita con il nome di “Madonna della Vittoria” da papa Pio V a ricordo della battaglia di Lepanto, svoltasi appunto il 7 ottobre del 1571, nella quale la flotta della Lega Santa (formata da Spagna, Repubblica di Venezia e Stato della Chiesa) sconfisse quella dell’Impero Ottomano. Il successore, papa Gregorio XIII, la trasformò in festa della “Madonna del Rosario”.
Orari S. Messe
Feriali: ore 19.00
Festive: ore 10.00, 11.30 e 19.00
Dal lunedì al sabato recita del S. Rosario alle ore 18.30
Chiesa Parrocchiale di Santa Sofia – Via Santa Sofia 102 – 35121 Padova – tel. 049 875 9939
L’orario di apertura della chiesa è:
Lunedì, Martedì, Venerdì e Sabato: 8:00-12:00; 16:00-19:45
Mercoledì e Giovedì: 9:30-11:30; 16:00-19:45
Domenica: 9:00-12:45; 18:30-20:00